Il 15 aprile 1967 nella sua casa romana di via Bruno Buozzi si spegneva Antonio De Curtis, il Principe della risata, in una sola parola Totò. Ricordare il più grande comico italiano, un uomo che inventò letteralmente una lingua è un’operazione al tempo stesso facile e scontata, perché pochi attori al mondo hanno resistito indenni al trascorrere del tempo. Ancora oggi, infatti, i film di Totò vengono ciclicamente riproposti, entusiasmando diverse generazioni, con battute e gag entrate nella storia del cinema italiano e non solo. Eppure quei film, che tanto hanno fatto ridere, sono stati, cosa oggi francamente impensabile, oggetto della pruriginosa attenzione della censura, di quel complesso e bizantino sistema che dal 1913, anno in cui fu creato, passò al vaglio ogni spettacolo, libro, film, operando tagli indiscriminati sulla base di una supposta difesa della morale e dell’immagine nazionale. 

TOTÒ E LA CENSURA A TEATRO

Questa attenzione quasi maniacale sul cinema nostrano e non, proseguì anche con l’avvento della Repubblica e anzi per certi aspetti si rafforzò, nonostante il dettato dell’articolo 21 della Costituzione garantisse la libertà di pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. E sotto la lente di ingrandimento di zelanti uomini dello stato, guidati dal giovane sottosegretario Giulio Andreotti, non passò indenne neppure il grande Totò, che vide più di un suo film sottoposto alla macchiosa azione della censura.

Totò e Anna Magnani

Totò e Anna Magnani

Il rapporto fra la censura e Totò iniziò ben prima del suo approdo al cinema. Già da attore di teatro dovette più volte difendersi dagli scriteriati attacchi attuati da quell’organismo censorio che Mussolini riorganizzò nel settembre del 1923 con un apposito decreto regio.

A preoccupare particolarmente gli occhialuti revisori era il carattere spesso improvvisato degli spettacoli di Totò, il suo andare a braccio, i suoi sguardi allusivi, la mimica incalzante, l’ironia ficcante, quella lingua inventata capace di straordinari doppi sensi, tutte caratteristiche, tuttavia, su cui poco si poteva fare, specie preventivamente.

Nonostante tutto la censura era solita passare al setaccio ogni copione degli spettacoli portati in scena dal comico napoletano, analizzando titoli, battute, gag, una forma di controllo che, pur non fornendo una totale rassicurazione, aveva lo scopo di esercitare una forma di pressione sulla compagnia e specialmente su Totò e sulla sua recitazione.

Emblematico fu il caso che riguardò la rivista Che si son messi in testa firmata da Michele Galdieri con Totò e Anna Magnani fra gli attori principali, che andò in scena al teatro Valle di Roma nel febbraio del 1944. La censura ritenne quel titolo non adatto in quanto allusivo ai tedeschi che all’epoca occupavano la Capitale. Per questo imposero la modifica dello stesso in un più neutro Cosa ti sei messo in testa.

Nonostante il preventivo intervento censorio Totò non si lasciò certo intimidire e come al solito sul palco si lasciò andare senza troppi freni, con la conseguenza di essere denunciato per frasi offensive nei confronti dei tedeschi. A suscitare “scandalo” fu la frase, più volte ripetuta, e decisamente molto attuale «quando tutto manca … non ci rimane che farci una risata».

L’attenzione della censura sugli spettacoli teatrali del grande comico napoletano non cessò con la fine della guerra e la caduta del fascismo. Anche sotto la repubblica l’attività di Totò fu particolarmente controllata come nel caso della rivista Bada che ti mangio che fu dovutamente passata al setaccio della lente dell’ufficio censorio.

LA CENSURA DEL PRINCIPE DELLA RISATA AL CINEMA

Totò e Mario Monicelli in una pausa sul set de I Soliti Ignoti

Totò e Mario Monicelli in una pausa sul set de I Soliti Ignoti

Non andò meglio con il cinema anzi se possibile fu pure peggio. Nonostante i suoi film sbancassero ai botteghini, facendo ridere milioni di italiani, la censura continuava a ritenere Totò e la sua arte pericolosi. Nel 1951 cadde sotto la scure della censura il bellissimo Guardie e Ladri del duo Steno-Monicelli, in cui si raccontano le peripezie del bonario poliziotto, il brigadiere Bottoni, interpretato da Aldo Fabrizi, che deve arrestare entro tre mesi, pena il licenziamento, il piccolo truffatore Ferdinando Esposito, ovviamente Totò.

Alla commissione non piacque il taglio di tutta la pellicola, il fatto che emergesse la figura di un agente di PS che fraternizzasse con un ladro. I due registi dovettero apportare alcuni tagli pur di vedere uscire la loro pellicola nelle sale. Il film, che valse il Nastro d’Argento per Totò, al netto delle incaute sforbiciate censorie, fu un successo e il pubblico si identificò completamente con la storia dei due protagonisti, rappresentativi di un’Italia ancora da ricostruire, che si arrangiava pur di sbarcare il lunario.

Un anno dopo fu la volta di Totò e i re di Roma, unico film in cui Totò e Sordi recitarono insieme. La pellicola, firmata ancora una volta da Steno e Monicelli e ispirata a due celebri racconti di Cechov, La morte di un impiegato ed Esami di promozione fusi in un’unica vicenda, fu sottoposta alla ferma azione della censura a partire dal titolo che, originariamente, avrebbe dovuto essere E poi dice che uno… con chiaro riferimento alla celebre battuta di Totò, ripetuta anche nel film e poi dice che uno si butta a sinistra, un titolo che nell’Italia democristiana era inaccettabile.

Altri tagli riguardarono il finale e in particolare una scena del celebre esame a cui si sottopone l’archivista capo Ercole Pappalardo (Totò) che, per non essere licenziato, deve assolutamente prendere la licenza elementare, nonostante un’età non più giovanissima, una moglie e cinque figlie a carico. La scena oggetto di censura riguardò la risposta che Totò diede alla domanda del petulante e cinico maestro Palocco, interpretato da un giovanissimo Alberto Sordi, che chiedeva insistentemente il nome di un pachiderma. Totò risponde convintamente, mal interpretando il suggerimento di un altro maestro che mima le orecchie d’elefante, il nome di Bartali ma in realtà non fu la vera risposta che diede il comico napoletano.

Questo lo si intuisce sia dalla voce che non è certo quella di Totò ma anche dal labiale da cui è evidente che il nome pronunciato fosse quello di De Gasperi, il presidente del consiglio noto per non avere delle orecchie proprio piccole. A conferma di ciò c’è anche la risposta dell’arrogante maestro che sdegnato afferma: «Vedo che Lei non ha perso l’abitudine d’insultare i suoi superiori!».

Altro film interpretato da Totò e sottoposto al vaglio della censura fu I Soliti ignoti, uno dei capolavori del neorealismo italiano, «la migliore commedia italiana di sempre» a detta del noto critico Paolo Mereghetti. Alla pellicola di Mario Monicelli, uscita nel 1958 e che vide Totò interpretare, in un indimenticabile cameo, Dante Cruciani, un vecchio ladro che impartisce una lezione su come aprire una cassaforte, fu imposto il cambio del titolo.

L’originario La madame, fu ritenuto dalla commissione indagatrice inadatto perché troppo allusivo al gergo con cui la malavita era solita definire la polizia. Furono ipotizzati altri titoli, fra cui il La Commare o La Banda del buco ma alla fine si optò per quello definitivo: I Soliti ignoti.

Ma la pellicola di Totò più censurata, fermo restando che furono molte altre quelle oggetto di attenzione da parte della censura, (fra le altre I Tre ladri, Chi si ferma è perduto, Siamo uomini o caporali e I due marescialli), fu senza dubbio Totò e Carolina, uno dei film più amati dall’attore partenopeo. Diretto da Mario Monicelli, che si avvalse come aiuto alla regia di Gillo Pontecorvo al suo secondo film, Totò e Carolina non ebbe francamente vita facile e non solo per l’estenuante attenzione della censura.

Le riprese furono interrotte, a lavorazione quasi ultimata, nel novembre 1953, a due mesi dal primo ciak, a causa di una brutta broncopolmonite che Totò si era preso durante le riprese. Ma a bloccare la pellicola fu, come anticipato, la censura. Totò e Carolina, come ricordò più volte in seguito lo stesso attore, subì 82 tagli. Fu persino imposto la soppressione del nome del personaggio interpretato da Totò, che si presentava dicendo: “Caccavallo, agente dell’Urbe”.

D’altra parte, che sarebbe stata una pellicola sfortunata, lo si intuì subito. Quando, infatti, nell’agosto del 1953 la sceneggiatura, ancora intitolata Addio Carolina fu sottoposta all’esame della censura preventiva, il risultato non fu dei più incoraggianti. L’esaminatore, tal Annibale Scicluna, la respinse perentoriamente dando così inizio a una serie di infinita peregrinazioni in cui si contarono ben tre bocciature.

Per i censori, che ascoltarono anche le critiche dello stesso ministro dell’Interno Mario Scelba, il film aveva il torto di ridicolizzare, attraverso la figura del bonario e poco ligio alle regole agente Antonio Caccavallo, il ruolo della polizia, specie in un momento di forti tensioni.

Finalmente il 17 febbraio il film ottenne l’agognato imprimatur per essere proiettato nelle sale italiane. Sebbene i quasi trecento metri di pellicola tagliata, che inevitabilmente inficiarono il prodotto finale, e nonostante il divieto di produzione all’estero, la censura non fu ancora totalmente soddisfatta. Al produttore Antonio Altoviti, per conto della Rosa Film, fu imposto l’ultimo draconiano obbligo, quello di inserire, dopo i titoli di testa, a scanso di ulteriori equivoci, una sovraimpressione che avrebbe dovuto chiarire ancor di più lo stato dell’arte: «Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia».

Un’attenzione, dunque, capillare, occhiuta, bigotta da parte della censura sui film di Totò che, tuttavia, non si accorse, chissà perché, di una scena di nudo. Si tratta di Totò Tarzan, modesta pellicola del 1951 girata da Mario Mattoli, in cui Totò, nelle buffe e parodistiche vesti di un italico Tarzan, nello strappare la pelliccia di leopardo, indossata da un’avvenente signora, l’attrice Adriana Serra, la lascia, seppur per pochi istanti, a seno scoperto. Un moralismo becero e ipocrita che, tuttavia, non permise, nonostante inaccettabili tagli, di compromettere la straordinaria comicità del Principe della Risata che oggi come allora fa ridere milioni di italiani.

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