Durante i drammatici 55 giorni del sequestro Moro, mentre lo stato italiano ribadiva la giustezza della linea della fermezza come unica strada da intraprendere nel rapporto con i sequestratori, ci fu uno stato, quello vaticano, che si mosse in sordina, sondando l’effettiva possibilità di ottenere la liberazione dell’onorevole democristiano dietro la corresponsione di denaro.

Questo è il racconto di quella trattativa segreta promossa dal Vaticano per liberare Aldo Moro, dei suoi protagonisti e dell’infausto esito.

VATICANO E MORO. «IL PAPA HA FATTO POCHINO»

Nell’ultima lettera di Aldo Moro alla moglie Noretta, la più intima fra le decine scritte dallo statista, quella del toccante «se ci fosse luce sarebbe bellissimo» il politico conclude la missiva, non firmata perché probabilmente non terminata, con un amarissimo sfogo, pietra tombale su ogni flebile speranza di essere liberato:

«Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo».

Un finale netto, che non ammetteva repliche, la lucida presa di coscienza dell’uomo Aldo Moro del suo personale Getsemani, abbandonato da molti, anche da colui che non è solo il 262° vescovo di Roma ma, innanzitutto, un caro, vecchio amico fin dai tempi della FUCI, la Federazione Universitaria dei Cattolici Italiani.

Eppure Moro, quando scrisse nella “prigione del popolo” quella lettera, recapitata alla moglie il 5 maggio da don Mennini, non poteva sapere che in realtà Paolo VI stava facendo molto, che suoi intermediari si muovevano nell’ombra di una Roma il cui silenzio era straziato dalle sirene delle pattuglie delle forze dell’ordine, cercando di ottenere la liberazione dell’ostaggio, dietro il pagamento di un riscatto.

La vicenda di una trattativa promossa in gran segreto dal Vaticano con le BR per arrivare alla “scarcerazione” di Moro venne fuori solo diversi anni dopo quel tragico 9 maggio 1978.

LE RIVELAZIONI DI GIULIO ANDREOTTI E  CARLO CREMONA

A rendere noti i contorni di una vicenda degna della penna di un grande romanziere e rimasta per molto tempo avvolta nel quasi totale segreto, fu Giulio Andreotti che rilasciò a Luca Telese una lunga intervista pubblicata da “Il Giornale” l’11 settembre 2003.

Nella stessa, l’allora presidente del consiglio, rivelava di aver dato il nulla osta per un gesto unilaterale da parte del Vaticano per verificare la possibilità di ottenere la liberazione di Moro dietro il pagamento di un cospicuo riscatto.

La questione di una possibile trattativa fra Santa Sede e BR fu, due anni dopo, ampiamente affrontata da Vladimiro Satta che, nella primavera del 2005, scrisse per la rivista “Nuova Storia Contemporanea” un articolo dal titolo eloquente: Caso Moro, le vie della Chiesa.

Lo storico, a partire da quell’articolo, svelò i retroscena della «storia di un’offerta di denaro per riscattare l’ostaggio, avanzata riservatamente e con il beneplacito delle autorità italiane.» (1).

Aldo Moro e Giulio Andreotti

Aldo Moro e Giulio Andreotti

In verità prima dell’intervista boom concessa da Andreotti e dello studio di Satta (che alla vicenda del sequestro e della morte dello statista democristiano ha dedicato diversi libri, tesi in particolare a fugare con il rigore documentale alcuni celebri presunti misteri dell’affaire Moro), l’esistenza di una presunta trattativa ad opera della Chiesa era stata abbozzata dal solito Andreotti prima e da padre Carlo Cremona, dopo.

Il primo aveva accennato nei suoi diari, editi da Rizzoli nel 1981, che monsignor Pasquale Macchi, segretario particolare di Paolo VI, lo aveva informato di come il Vaticano avesse «fatto spargere la voce di una possibile corresponsione di mezzi, ma senza risultati positivi» visto che le Brigate rosse non volevano denaro ma solo ed esclusivamente un riconoscimento politico.

Il secondo, padre Carlo Cremona, pioniere del giornalismo religioso nonché amico di monsignor Macchi, nella sua biografia su papa Montini, che conosceva personalmente, aveva fatto un timido riferimento alla possibile trattativa condotta dalla Santa Sede, ma si trattava di poco più che un accenno, ancora più sfumato di quello di Andreotti nel suo libro di memorie.

La mediazione, tuttavia, come confermato anni dopo da Andreotti nell’intervista a Telese vi fu e si materializzò, molto probabilmente, alcune settimane dopo il sequestro di Moro, quando la possibilità di una liberazione immediata sembrò sempre più lontana.

LA LETTERA DI PAOLO VI AGLI UOMINI DELLE BRIGATE ROSSE

Roma, 16 aprile 1978. Aldo Moro, da un mese esatto è prigioniero delle BR, che lo hanno sequestrato in via Mario Fani, dopo aver sterminato i cinque componenti della sua scorta. Sulla rivista “Civiltà cattolica” compare un appello in cui viene scritto che: «salvo il riconoscimento politico delle BR, bisogna fare tutto il possibile per la salvezza di Aldo Moro».

Si tratta di un fatto importante che testimonia l‘impegno della Chiesa, le bozze della rivista dei gesuiti erano sempre vistate in anticipo dalla Segreteria di Stato vaticana, per fare qualcosa di concreto per salvare la vita di Aldo Moro.

Sei giorni dopo quell’articolo, a conferma che oltre Tevere ci si sta davvero muovendo, arriva la celebre lettera del papa «agli uomini delle Brigate rosse» a cui il pontefice chiede, in ginocchio, di liberare «l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni».

Si tratta, al netto di ogni tipo di sorta di speculazione, di una lettera dalla portata mediatica notevole, specie in relazione a quell’incipit «agli uomini delle Brigate rosse» che per il brigatista Valerio Morucci valse da solo più di qualunque offerta.

«Quell’inizio, quelle sole quattro parole condensavano tutto il discorso di Walddheim [all’epoca del sequestro Moro, Segretario Generale dell’Onu]. Uomini delle Brigate rosse. Non diavoli. E neanche “appartenenti” alle Brigate rosse. Uomini. Come lui e Moro. Lì era il papa che riconosceva dignità umana anche a chi aveva ucciso. Uomini come tutti gli altri che si affannano sotto lo stesso cielo».  (2)

L’INTERPRETAZIONE DI QUEL “SENZA CONDIZIONI”

Tuttavia, a far discutere fin da subito non fu quell’umanissimo riconoscimento, anche se per niente scontato come scrisse lo storico Agostino Giovagnoli nel suo Il caso Moro, una tragedia repubblicana, specie in un momento in cui il ricordo di via Fani era ancora vivissimo, bensì il passo della lettera in cui il papa chiedeva di liberare «l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni».

Fin da subito si dibatté molto su quelle parole, su quel “senza condizioni”. Anni dopo Riccardo Ferrigato, nel suo Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Moro, sostiene che in una prima stesura della lettera, pubblicata nel suo libro, il papa avesse chiesto di rilasciare l’ostaggio «semplicemente, senza alcuna imbarazzante condizione», frase che nella definitiva versione, scritta nel pieno della notte, vide espunte la terza e la quarta parola, nonché la trasformazione del sostantivo dal singolare al plurale.

Secondo Ferrigato quell’improvviso cambiamento, che per altri, come Corrado Guerzoni, addetto stampa di Moro, fu imposto da Giulio Andreotti (ipotesi sposata anche dal regista Marco Bellocchio nel suo film Buongiorno notte), fu dettato proprio dalla trattativa che il Vaticano stava conducendo e che doveva rimanere assolutamente segreta. Svelare, anche solo in parte quella complessa mediazione, tramite un messaggio pubblico equivaleva a compromettersi, con l’elevato rischio di far saltare tutto.

Ma torniamo alla trattativa, a quello che si provò a fare in quei drammatici giorni per liberare il politico democristiano.

LA TRATTATIVA PER SALVARE ALDO MORO

Perno dell’azione segreta promossa dal Vaticano per provare a liberare Moro attraverso il pagamento di una cospicua somma di denaro fu monsignor Cesare Curioni, capo dei cappellani delle carceri italiane e cappellano del carcere di San Vittore a Milano. È lui il protagonista occulto di tutta la trattiva, il trade union fra il Vaticano e un personaggio, ancora oggi rimasto misterioso, che affermava di essere in contatto con i sequestratori di Moro, sostenendo di poter liberamente trattare a loro nome.

Aldo Moro nel covo delle BR in Via Gradoli durante il suo rapimento

Aldo Moro nel covo delle BR in Via Gradoli durante il suo rapimento

I contatti con questa sorta di mister X iniziarono probabilmente qualche giorno prima del 18 aprile, il giorno della clamorosa scoperta del covo di via Gradoli e dell’operazione presso il lago della Duchessa. Si trattò, in vero, di primi timidi contatti, durante i quali, come sostiene lo storico Vladimiro Satta, il signor X cercò di dimostrare la sua attendibilità, «fornendo alla Chiesa fotografie del Presidente della DC, che egli diceva essere state scattate durante la reclusione nel “carcere del popolo”». (3)

Ma chi era questo oscuro personaggio? Difficile saperlo. Andreotti, nella già citata intervista del settembre del 2003, parla di un detenuto di cui non seppe mai il nome ma che per dimostrare la sua credibilità, era ricorso allo stratagemma di annunciare la falsità del comunicato sul ritrovamento del corpo di Aldo Moro nel lago della Duchessa, anticipando, al contempo, che le vere BR, lo avrebbero immediatamente smentito.

Una credenziale francamente molto misera perché il sospetto che quel comunicato fosse infondato, in seguito si scoprì che era opera del falsario Toni Chichiarelli, circolò ancor prima del nefasto esito delle operazioni condotte sullo strato ghiacciato del lago della Duchessa.

CHI ERA IL SIGNOR X?

Per Vladimiro Satta il signor X molto probabilmente era un complice dello stesso Chichiarelli e la preparazione del falso comunicato sarebbe stato il maldestro tentativo compiuto da delinquenti comuni a puro scopo estorsivo.

D’altra parte più di un brigatista ha negato con forza l’esistenza di una trattativa con il Vaticano, ribadendo come nel loro DNA non fosse contemplata l’ipotesi di una liberazione in cambio di denaro. Quello che loro avevano sempre cercato, fin dai primordi dell’operazione Moro, non erano certo soldi, ma solo e soltanto il riconoscimento politico.

Oltre Tevere, però, il signor X fu comunque ritenuto attendibile, tanto che la trattativa andò avanti al punto che, come lo stesso monsignor Macchi rivelò al giornalista Pierangelo Maurizio, si pattuì che le BR avrebbero dovuto consegnare l’onorevole Moro nelle mani dello stesso monsignor Curioni, in cambio di denaro, una cifra cospicua, compresa fra i 10 e i 15 miliardi di lire.

Gli uomini della scorta di Mono e il luogo dell'agguato a Via Fani

Gli uomini della scorta di Mono e il luogo dell’agguato a Via Fani

Lo scambio, a detta di quanto affermato dal teologo e giornalista Rai, Gianni Gennari, un altro testimone di questa intricata vicenda, si sarebbe dovuto perfezionare lo stesso giorno in cui il corpo dello statista democristiano fu trovato nel bagagliaio della famosa Renault 4 in via Caetani:

«Tutto era pronto per la liberazione di Moro, ma quella mattina del 9 maggio qualcosa andò storto o qualcuno si mise in mezzo per far fallire il piano voluto da Paolo VI, e finì come tutti sappiamo. » (4)

Qualcosa non andò come ottimisticamente immaginato. Di sicuro, quel 9 maggio, a tirarsi dietro per qualche motivo non fu la Chiesa ma il fantomatico signor X.

A detta di monsignor Macchi, che nella trattativa promossa dal Vaticano per liberare Moro aveva sempre fermamente creduto, il fallimento della stessa fu legato al netto rifiuto allo scambio opposto da parte dell’ala più dura delle BR, ipotesi sostenuta anche da padre Carlo Cremona. Questi, nel 2003, rilasciò al solito Pierangelo Maurizio un’intervista in cui svelava di aver ricevuto da Firenze una telefonata dal misterioso intermediario nella quale riferiva come fosse «saltato tutto, che aveva dovuto lasciare Roma perché i suoi compagni avevano minacciato di ucciderlo». (5)

Molto probabilmente tutta la mediazione, al netto delle diverse ricostruzioni che non sempre collimano, fu una gigantesca truffa condotta da un personaggio senza scrupoli che approfittò della buona fede di Paolo VI e dei suoi più stretti collaboratori.

Un personaggio che millantò conoscenze nel mondo delle BR al solo scopo di estorcere del denaro, ottenuto il quale, accontentandosi magari anche di una prima tranche, sarebbe sparito in quello stesso nulla da cui era sbucato fuori.

Una vicenda che, come scritto da Satta, «presenta elementi che ormai si possono ritenere sufficientemente conosciuti accanto ad altri che invece sono tuttora gravati da incertezze e contraddizioni» (5) ma che testimonia, al contempo, l’umanissimo tentativo di un vecchio e stanco papa di liberare il suo caro amico Aldo.

 

(1) Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino 2006, pp. 141-142.

(2) Agostino Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino 2005, p. 197.

(3) Vladimiro Satta, Il caso Moro e i suoi falsi misteri, cit., p. 157.

(4) Orazio La Rocca, Paolo VI cercò di salvare Moro. Erano pronti 10-15 miliardi di lire, in “La Repubblica” 9 maggio 2013.

(5 )Pierangelo Maurizio, È vero, il Vaticano aveva pronto il riscatto per Moro, in “Il Giornale” 23 settembre 2003.

 

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