“Il mio primissimo ricordo di quel 16 marzo 1978 è innanzitutto sensoriale, uditivo, il cupo rombo degli elicotteri che fendevano il cielo, lo squillo assordante delle sirene delle macchine della polizia”. A ricordare, a distanza di quarant’anni, quella tragica e indimenticabile giornata del sequestro Moro che rappresentò un vero e proprio spartiacque nella storia della nostra Repubblica, è Rita, all’epoca una bambina, che viveva con la famiglia in un palazzo in via Fani a Roma, a pochi metri da quel famigerato incrocio con via Stresa dove, pochi minuti dopo le nove, in quel mattino di metà marzo, fu scritta la storia e per sempre. Ecco la sua toccante testimonianza.

AGGUATO DI VIA FANI: LA TOCCANTE TESTIMONIANZA DI RITA

“Quel giorno saremmo dovuti andare in gita, eravamo tutti pronti davanti all’ingresso della scuola. Attendavamo con trepidazione di salire sul pullman per trascorrere una mattinata fuori dall’aula, un’esperienza che per noi bambini era sempre emozionante. Ma su quel pullman non salimmo mai, poco dopo, infatti, ci rimandarono a casa. Non ricordo cosa ci dissero per giustificare quel fatto, ma non dimentico il trambusto che trovai sotto casa. Via Fani era stata già chiusa e c’era un’infinità di persone, carabinieri, polizia, giornalisti, volti sconosciuti ma anche familiari, quelli di sempre.

Gli uomini della scorta di Mono e il luogo dell'agguato a Via Fani

Gli uomini della scorta di Mono e il luogo dell’agguato a Via Fani

Via Fani assomigliava a un formicaio impazzito, mi sembrava impossibile che in quella stretta strada potessero entrarvi così tante persone e auto. Era un brulicare interminabile di macchine, un suono ininterrotto di sirene, un quadro dipinto con i colori della disperazione. Compresi attraverso i miei sette anni dai volti degli adulti, che qualcosa di molto brutto fosse accaduto in quella che era la mia strada, la via di casa. Nei loro sguardi scovai la paura incontrollata, percepii lo sconvolgimento nero, avvertii il loro umanissimo terrore, una sinestesia di sensazioni che mai prima avevo visto nei grandi.

Arrivata a casa trovai mia zia, giunta da poco e che era passata per via Fani pochi minuti dopo la strage, prima ancora che in quella piccola strada si riversasse il mondo. Aveva visto quei corpi terribilmente straziati, quel rivolo di sangue che lento scorreva verso il marciapiede, il corpo di uno di quei ragazzi in terra, quelli degli altri componenti della scorta ancora nelle loro macchine, vite che rimarranno fissate per sempre dagli spilli acuminati sui fogli squadernati della storia, istantanee che nessuno non potrà mai più non vedere.

Mia zia non disse nulla, ma non servivano mille inutili parole. Bastò semplicemente guardare quei suoi occhi rossi, velati da un pianto invano nascosto allo sguardo, per comprendere che da quel giorno qualcosa sarebbe fatalmente cambiato. La nostra casa in quel tragico 16 marzo letteralmente si trasformò. Persone mai viste vi fecero ingresso, molte di queste indossavano una divisa. Chiedevano se potessero utilizzare il telefono, avevano necessità di comunicare immediatamente stralci di storia. Erano voci concitate, in alcuni casi sconvolte, tutti volti segnati da una paura sempre più crescente.

Nelle ore successive seppi quello che era accaduto, venni a conoscenza del rapimento di Aldo Moro e la cosa mi fece particolarmente male perché conoscevo bene la moglie. La maestra Eleonora era la mia catechista, una donna dolcissima, un sorriso indimenticabile. Moro non lo conoscevo direttamente, ma nella nostra chiesa era un volto familiare, veniva spesso per assistere alla messa, lo faceva nella massima discrezione, con la scorta a una certa distanza.

Memoriale di Moro

Lo statista Aldo Moro

Da quel giorno la strada della mia infanzia, un luogo intimo da condividere con poche persone, divenne un luogo pubblico, una targa da immortalare nel tempo, un pezzo di storia, un nome da associare per sempre a una strage, alla morte di cinque ragazzi“.

Oggi Rita abita ancora in zona, è una donna adulta che si emoziona a ricordare quei momenti, reminiscenze indelebili che affiorano di tanto in tanto, specie quando via Fani, la sua via Fani, torna a fare i conti con la storia.

«Mi è capitato spesso nel corso di questi anni di rivivere quei tragici momenti, magari semplicemente affacciandomi dalla finestra. Per motivi cinematografici via Fani più volte è tornata ad essere il teatro di quel 16 marzo, di quella strage. E allora rivedo l’Alfetta bianca crivellata di colpi, la macchina blu dove sedeva Aldo Moro, che tante volte avevo visto passare, e allora il mio film, quella pellicola che io, una bambina di sette anni avevo involontariamente girato nella mia memoria, torna a scorrere velocemente. Fotogrammi che non dimenticherò mai più».

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